La Sindrome di Ulisse e la salute mentale dei rifugiati: alcuni studi della WHO

Abbiamo deciso di riassumere un interessante lavoro prodotto dalla World Health Organization che parla dei contesti culturali della salute. Lo studio si concentra sull’uso della ricerca narrativa nel settore sanitario, e la parte che abbiamo deciso di condividere con i nostri lettori sottolinea la salute mentale dei rifugiati e dei richiedenti asilo.

La maggior parte della ricerca legata alla salute si concentra su tendenze demografiche e misurazioni quantitative delle condizioni e sui bisogni sanitari. La ricerca narrativa può fornire un importante complemento alla ricerca deterministica, incentrata sulle variabili e alla necessità burocratica di categorie standardizzate.

Un numero di fattori può affliggere la salute mentale dei migranti, inclusi gli effetti di una migrazione coatta e dei disagi, traumi e stress psicologici, problematiche di acculturazione e le interazioni con il sistema d’asilo e con il sistema sanitario. Ruiz e Bhugra hanno proposto una tassonomia di variabili che impatta positivamente e negativamente sul processo di acculturazione dei migranti, incluse le variabili sociodemografiche, le variabili sociali, le variabili del gruppo di migranti, le variabili sociologiche e psicologiche e quelle comportamentali. Hanno commentato:

Queste variabili, così come la modalità finale di risoluzione del processo di acculturazione, determinerà il livello finale di un risultato positivo o negativo nel risolvere l’impatto dello stress dell’acculturazione.

Uno dei fattori maggiori che possono condurre a problematiche di salute mentale per i migranti è il trauma legato agli eventi avvenuti nelle loro terre natali e che li ha costretti precipitosamente a migrare o viaggiare. Nel 2011, l’European Observatory on Health Systems and Policies ha descritto e quantificato i modelli di migrazione volontaria e coatta all’interno delle nazioni europee e i loro effetti sulla salute. Una sezione del libro ha sottolineato la presenza predominante di stress psicologico non specifico e di psicopatologie nei migranti coatti rispetto la popolazione generale o rispetto i migranti volontari. La spiegazione preferita è il modello della violenza “life-course”: gli eventi traumatici che accadono prima, dopo e durante la migrazione possono avere effetti latenti, condurre dalla vulnerabilità alla malattia che può attivarsi tempo dopo, in particolare quando esposti a circostanze avverse a seguito della migrazione.

In parte a causa delle difficoltà nell’ottenere narrazioni autentiche in prima persona sul campo d’indagine, alcuni autori hanno utilizzato un approccio più radicale e semi-fantastico nell’illustrare le esperienze di sofferenza. Il dr. Joseph Achotegui, professore di psicopatologie all’Università di Barcellona, ha descritto una nuova sindrome, la sindrome di Ulisse, la quale è definita come una combinazione di sintomi sia fisici che psicologici percepiti dai migranti che affrontano più fattori di stress. Non si tratta di un disturbo mentale accettato dalla WHO “”Classification of mental and behavioural disorders”, come lo è ad esempio il disturbo da stress post-traumatico. Comunque, Achotegui suggerisce che si tratti di una forma estrema di cordoglio migratorio, un disordine olistico del benessere generato dai limiti del contesto e quindi meglio studiabile facendo riferimento al mito e alla meta-narrativa rispetto ai manuali di medicina dei disturbi. Il nome deriva dall’eroe greco di Omero, Odisseo (conosciuto nei miti romani come Ulisse) il quale trascorse 10 anni attraverso un lungo ed eccezionale straziante viaggio in mare per tornare nella sua casa dopo la caduta di Troia; lontano dalla sua amata, ha passato giorni “sedendo su rocce, al limitare del mare, fissando lo sguardo sul mare arido, piangendo senza consolazione”. La sindrome è stata descritta nella seguente maniera: La Sindrome di Ulisse prende posto ai livelli estremi dei fattori stressanti. Il compresso contesto migratorio può includere fattori che causano un alto livello di stress come: separazioni forzate, pericoli del viaggio migratorio, isolamento sociale, assenza di opportunità, senso di fallimento degli obiettivi migratori, caduta di status sociale, estremo sforzo per i sopravvissuti, e atteggiamenti discriminatori nelle nazioni d’accoglienza. Piuttosto che spiegare i sintomi della sindrome di Ulisse in termini di combinazioni di variabili Achotegui dipinge parallelismi con la storia interculturale di Ulisse, la cui identità è profondamente danneggiata dalla sua traversia che arriva a dire, “Mi domandi quale sia il mio nome. Te lo dirò. Il mio nome è nessuno e nessuno è come tutti mi chiamano”. Achotegui dipinge dettagliatamente i dati numerici per descrivere il problema di una migrazione forzata ma fornisce anche casi narrativi dettagliati di singoli migranti e fa un suo esplicito e retorico di metafore. Per esempio, ha scoperto che la maggior parte degli immigrati non arriva col gommone ma vede il gommone (precario, di fortuna, rischioso) come la perfetta metafora del viaggio migratorio. Cita l’uso della metafora dei suoi pazienti (uno ha detto, riguardo il suo senso di smarrimento, “è come se vi fosse una centrifuga nella mia testa, accesa tutto il giorno”). Ha utilizzato le sue metafore e il suo immaginario per illustrare la quasi insostenibile tensione tra speranza e disperazione sperimentata da molti migranti forzati.

Achotegui enfatizza il fatto che la maggior parte dei viaggi di migrazione forzata oggigiorno sono intrapresi in solitaria, rispetto alla famiglia di tre generazioni descritta da John Steinbeck in “The grapes of wrath”; la sua immaginaria famiglia Joad era costretta a migrare a causa di dure avversità economiche ma lo fece come un’unità di sostegno. Gli espedienti retorici di associazione e dissociazione si mescolano per dare un potente punto narrativo riguardo l’isolamento esistenziale.

Un’area dove le narrazioni sui migranti coatti ha fatto ricerche con successo è quella che studia le esperienze del sistema sanitario. Due studi riguardanti esperienze del genere, una attraverso interviste narrative con 20 rifugiati somali in Svezia e una attraverso un focus group con 34 rifugiati somali nel Regno Unito. I risultati erano simili: un’alta considerazione del sistema sanitario del paese ospitante (e alte aspettative), ma difficoltà d’accesso ai servizi (in particolar modo quando in movimento attraverso gli alloggi temporanei) e in più la percezione di una discriminazione da parte dello staff sanitario. I partecipanti sentivano che i loro problemi e la loro cultura non erano ben compresi dai professionisti sanitari, che (secondo quanto riportato) non li prendevano sul serio. Nello studio sul Regno Unito, un alto uso dei dipartimenti d’infortunio e d’emergenza è stato attribuito dai rifugiati somali all’aver ricevuto un rifiuto di cura (o la loro preoccupazione nell’essere dimessi) dai medici generali. Questi studi hanno portato alla luce un’importante lezione per ridisegnare i servizi e l’educazione dello staff.

Matteo Nunner

Laureato in Lettere all'Università del Piemonte Orientale, si sta specializzando in Scienze Antropologiche ed Etnologiche all'Università di Milano-Bicocca. Giornalista e scrittore vercellese, ha collaborato con molte testate locali e nel 2015 ha pubblicato il romanzo d'esordio "Qui non arriva la pioggia". Nel 2017 ha poi pubblicato "Il peccato armeno, ovvero la binarietà del male".

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Annarita Signorello

    Articolo molto interessante, complimenti. Vorrei trattare quest’argomento, in particolare la Sindrome di Ulisse, nel mio elaborato tesi. Pertanto le chiedo, ci sarebbero delle letture o degli studi relazionati che potrebbe consigliarmi per ampliare l’argomento? Grazie mille.

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