La gravidanza nelle donne dell’Africa sub-Sahariana con Anemia Falciforme

Pablo Picasso - Tres mujeres
Pablo Picasso – Tres mujeres

Ospitiamo il project work di Carla Galvani, partecipante alla IV edizione del Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD.

In ogni società, alla gravidanza e al parto corrispondono forme di controllo pervasivo in ogni ambito di vita della donna. Poiché si tratta di una fase di pericolo, questo controllo assume il significato e la forma di protezione che rassicura e tranquillizza.

Nella società italiana, la medicalizzazione della gravidanza e l’ospedalizzazione del parto costituiscono le forme di controllo attuate per far in modo che l’evento individuale si svolga secondo i modi prestabiliti, indipendentemente dalla volontà del singolo [1]. Nella gravidanza e nel parto sono attuati costrutti simbolici che servono a mantenere il potere e la legittimità della medicina nel controllo del processo riproduttivo. Secondo Elena Balsamo il simbolismo è strumento di controllo sociale ancor più in condizioni di pericolo come la nascita [2].

Quando il senso dell’ordine sociale è minacciato, i confini tra corpo individuale e corpo politico si confondono, si diffonde un rinnovato interesse che spesso si esprime nella sorveglianza dei confini sociali e corporei, non soltanto degli individui ma anche delle popolazioni e quindi della sessualità, del genere, della riproduzione [3].  E’ così integrata nella nostra cultura questa forma di protezione/ controllo che non ce ne rendiamo più conto. Quando una donna italiana rimane incinta, il primo pensiero non va al rischio, ma ad altre categorie di problemi. Solo in seconda battuta emerge la preoccupazione che l’evento possa non avere buon fine. Fa scalpore infatti la notizia di una morte di parto della madre e del bambino.

In diverse zone dell’Africa, la sensazione di pericolo è molto forte, e la gravidanza, oltre che il parto, vengono vissuti collettivamente. Il controllo, la gestione e il sostegno sono affidati, sin dai primi mesi di gestazione, dalla comunità di genere, dal gruppo parentale: la nonna, la madre, le sorelle.

Nelle culture africane [4] la nascita è assimilabile a un rito di passaggio sia della donna che del bambino. Gravidanza e parto costituiscono il primo evento della vita individuale che sancisce l’ingresso nella comunità. Da una persona se ne generano due. La donna rinasce in una nuova condizione divenendo madre. Simbolicamente, vi è una sovrapposizione tra il materno e il femminile, che permette alle donne di pensarsi tali in quanto madri. Il bambino che nasce entra in famiglia e nella comunità. I pericoli della gravidanza riguardano quindi sia la madre che il bambino. In situazioni di crisi e povertà, come in alcuni paesi dell’Africa centrale, i bambini drepanocitici, epilettici o con turbe comportamentali, sono soggetti a gravi stigmatizzazioni, come l’esclusione dall’istruzione e dall’ospedalizzazione, troppo costosa; possono essere abbandonati sulla strada o nella foresta perché considerati oggetto di stregoneria. Un lavoro francese di Doris Bonnet [5] sulla condizione dei pazienti con Anemia Falciforme (AF) pone in evidenza le problematiche legate al processo identitario. Le donne con AF sono spesso considerate delle porta sfortuna, delle donne maledette. Il tema della maledizione, di grande pregnanza nell’Africa rurale, si attribuisce essenzialmente alle donne che sono colpite ripetutamente nella sfera riproduttiva. Talvolta per questo vengono ripudiate. La consuetudine di pensare alla maledizione, in alcune regioni dell’Africa (soprattutto nell’area sub-Sahariana, dove è attivo il nomadismo e l’attività prevalente di sussistenza è l’allevamento del bestiame), non colpisce unicamente le donne e il bambino malato, ma marchia in egual misura i maschi le cui donne muoiono sistematicamente di parto.

La migrazione verso l’Europa di molte popolazioni, l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e alla genetica, ha permesso loro di ricostruire la storia della malattia, di ricostruire l’albero genealogico, di riconfigurare le relazioni in seno al gruppo familiare (es. matrimoni tra consanguinei) nei nuovi Paesi. La compartecipazione della coppia alla trasmissione della malattia ha portato sulla scena la corresponsabilità del maschio in una cascata di trasmissioni familiari. Alcuni maschi non accettano la visione mendeliana della trasmissione genetica, e ancor meno le famiglie d’origine. La scarsa conoscenza dell’organizzazione sociale delle società popolari africane da parte dei professionisti della salute, induce questi ultimi ad utilizzare il concetto di “cultura d’origine” per spiegare i comportamenti (in particolare la scarsa adesione alle cure) delle persone immigrate altrimenti considerati incomprensibili. Il concetto di “cultura d’origine” applicato a realtà molto diverse può diventare una generalizzazione che cancella le diversità sociali e la varietà delle storie di emigrazione e integrazione che ognuno presenta. L’uso generalizzato di questa nozione non permette di conoscere i cambiamenti delle strutture sociali e familiari di tutti i paesi dell’Africa sub-Sahariana. La pertinenza dell’analisi contestuale, la ricerca, l’investigazione sono gli strumenti che aprono finestre di conoscenza e comprensione. E’ un processo lungo d’integrazione e di rimaneggiamento culturale che riguarda i migranti e gli operatori occidentali.

L’anemia falciforme è una malattia genetica che colpisce l’emoglobina; si caratterizza per anemia cronica (scarsità di globuli rossi e di emoglobina) ed episodi dolorosi acuti, con danneggiamento di vari distretti ed organi. La malattia prende il nome dalla forma “a falce” che assumono i globuli rossi dei malati, ed è particolarmente frequente nelle regioni del mediterraneo e soprattutto nell’Africa sub-Sahariana.

Questa malattia non ha un decorso clinico uguale in tutti i pazienti: alcune persone affette mostrano disturbi lievi, mentre altre manifestano sintomi molto gravi.

Il mio project work al Master di Medicina Narrativa Applicata

Negli ultimi anni della mia carriera lavorativa di fisioterapista presso il Day Service di Medicina Interna del Policlinico di Verona ho seguito occasionalmente alcune donne incinte con AF durante un periodo  di ricovero ospedaliero per crisi vaso occlusive.

Non posso dimenticare quegli occhi smarriti carichi di paura. Con l’occasione del project work nell’ambito del Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD, raccogliere le loro storie di gravidanza mi è parsa una possibilità per conoscere e dar voce a quelle paure. Le narrazioni sono state raccolte attraverso conversazioni (intervista orale semi-strutturata) con donne che hanno avuto esperienza di gravidanza, negli ultimi 5 anni dal 2010 al 2015. La scelta di questo intervallo di tempo si basa sulle caratteristiche della malattia, che limita notevolmente le pazienti ad affrontare una gravidanza, così come riesce difficile il successo del concepimento.

Ho lasciato libero il racconto, utilizzando delle domande come supporto nei casi in cui l’eloquio non procedeva. In alcuni casi la narrazione è stata fluente, in altri sono state utilizzate alcune domande, in altri ancora si è lasciata la testimonianza così come è stata prodotta.

I temi ricorrenti riguardavano:

La cultura del luogo d’origine: In Burkina Faso è normale star male durante la gravidanza quando una donna ha l’AF. Sanno che è a rischio di crisi, temono il momento del parto; In Ghana l’AF è uno “stigma”… In Africa le donne stanno più male in gravidanza che qui in occidente, sputano molto e per noi è normale. Si accetta.

La paura di trasmettere la malattia al bambino: Le mie paure fondamentali erano quelle di trasmettere la malattia al bambino e di riuscire a portare a termine la gravidanza per farlo nascere; Dentro di me pensavo, se anche questo figlio è malato, mi uccido; La bambina è sana, non ha AF. E’ stato un sollievo quando l’ho saputo; Questa paura mi ha accompagnato per tutta la gravidanza.

La solitudine: Tenevo tutto dentro. Avevo uno sguardo triste. Per questo ho fatto più crisi; Non avevo amici veri, anche adesso non ne ho; Non ho mai parlato della mia preoccupazione di fondo; Non ho parlato con nessuno dei miei pensieri, preoccupazioni, non mi fido, è come se fossi sola.

Le emozioni dichiarate sono state:

La paura: Avevo paura di perdere il bambino; Ero preoccupata per la salute, la mia, e mi chiedevo: riuscirò a portare a termine questa gravidanza?; Avevo due tipi di paure. La prima di perdere il bambino, la seconda che potesse nascere anormale, con delle gravi malformazioni, con tutte le medicine che avevo ingoiato. Non volevo perderlo e non volevo che avesse dei gravi handicap. Se ci fosse stato quel pericolo, era meglio che la natura facesse il suo corso; Mi sentivo molto debole. A un certo momento pensavo di morire. Eravamo disperati.

La gioia di sentire dentro di sé una nuova vita: I momenti più emozionanti sono stati la prima ecografia, lo vedevo per la prima volta, e poi i primi movimenti, la sua presenza,  e la nascita, Mi ha fatto impressione sapere che è la mia bambina, che l’avevo fatta io; Adesso capisco mia madre quando mi dice: ti voglio bene.

Il bisogno di affidarsi e di essere rassicurata: Ero preoccupata, le altre donne mi rassicurarono; Qui sono umani e attenti alle persone. Non devo preoccuparmi di niente, mi telefonano a casa.

Il desiderio di  riuscire a farcela: Quando è nato ho pensato ce l’ho fatta… Ho pianto dalla gioia.

Il bisogno di condividere con altre donne e di costituire una rete di sostegno di genere per favorire il confronto, la condivisione e lo scambio di esperienze: Non faccio facilmente amicizia, mi ci vuole tempo ma mi avrebbe fatto piacere un confronto; Non avevo avuto contatti con altre donne nella mia condizione, mi sarebbe piaciuto per condividere e rassicurarmi un po’ ; Ho incontrato una paziente del centro, africana  come me che già aveva avuto figli. E’ stato un incontro casuale ma molto utile. Lei mi ha raccontato la sua esperienza, le ho fatto domande, mi ha dato consigli. Mi ha rassicurata; Mi è piaciuto raccontare, magari potrà servire a qualche altra donna; Sarebbe bello potersi confrontare, i bambini crescono e nuove domande ci sono sempre; Sarebbe utile organizzare degli incontri con le donne falcemiche anche con quelle che non hanno ancora figli, per raccontare e far sentire che le storie delle altre possono essere di aiuto.

Quasi tutte hanno fatto riferimento al legame di coppia Questa volta ero insieme con mio marito e il peso di questa preoccupazione era condiviso; Mio marito mi è stato vicino; Mio marito chiese dove potevamo trovare un aiuto per il mio caso.

Ho rivissuto nell’ascolto delle storie la mia esperienza di maternità. Ho percepito la mia ignoranza, le mie conoscenze grossolane sui mondi degli immigrati, ho sentito la facilità con cui si può scivolare in maniera difensiva nel concetto di cultura d’origine. Questo lavoro è stato per me come una nuova gravidanza con le paure di non farcela, di generare un prodotto difettoso, deforme, ma con la speranza che tutto andasse bene e che il bambino ideale non fosse troppo dissimile dal bambino reale. Ogni progetto è un processo generativo e in questo senso accomuna i generi.

Questo lavoro ha inoltre avuto l’ambizione di rappresentare un inizio, una prima occasione di riunione di donne che affrontano questa delicata esperienza, con l’intento di strutturala in un vero e proprio gruppo di sostegno, così come richiesto dalle donne stesse. La narrazione, in qualunque cultura e lingua, è un ponte che apre, sostiene, non può che portare in una buona direzione.

[1] e [4] Colombo G, Pizzini F, Regalia A, 1985. Mettere al mondo. La produzione sociale del parto. Milano: Franco Angeli.

[2] Balsamo E, 2002. Bambini immigrati e bisogni insoddisfatti: la via dell’etnopediatria”, in Balsamo E, Favaro G, Pavesi A, Samaniego M. Mille modi di crescere. Bambini immigrati e modi di cura. Milano: Franco Angeli.

[3] Lock M, Scheper-Hughes N, 1987. Un approccio critico-interpretativo in antropologia medica, in Quaranta I, 2006. Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina.

[5] Bonnet A, 2009. Repenser l’Hérédité. Paris: Editions des Archives Contemporaines.

 

 

Paola Chesi

Laurea in Scienze Naturali presso l’Università degli Studi di Torino. Project manager e docente dell’Area Sanità di ISTUD dal 2010. Esperta nella realizzazione di ricerche organizzative in ambito sanitario, in particolare attraverso l’approccio della Medicina Narrativa, applicata a progetti di respiro nazionale e internazionale per l’analisi dell’organizzazione e qualità dei percorsi di cura. Tra i temi di riferimento, l'inclusione delle persone con disabilità, e il benessere organizzativo. Coordina percorsi formativi accreditati ECM sulla Medicina Narrativa rivolti a professionisti sanitari, svolgendo attività di docenza applicata e tutoraggio. Coordina progetti europei finanziati nell’ambito dei Lifelong Learning Programme, con particolare riferimento alle metodologie formative basate sullo storytelling. Collabora con la Società Italiana di Medicina Narrativa e con referenti di università internazionali. Partecipa in qualità di relatrice a convegni promossi da società scientifiche e Aziende Sanitarie.

Questo articolo ha un commento

  1. Linda Gammaro

    Gentile Paola
    sto preparando per il mio Ospedale una relazione su Maternità nei Paesi africani , paese in cui ho vissuto una bella esperienza come Medico e Nefrologo , sfiorando anche maternità e nascite
    Potresti aiutarmi nella ricerca di bibliografia ? Linda Gammaro
    Direttore FF UOC Nefrologia e Dialisi
    Ospedale di San Bonifacio (Verona)

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