Intervista ad Antonio Virzì

virziAntonio Virzì è specializzato in Neurologia, Psichiatria e Psicologia, ed è professore universitario nonché direttore dell’U.O.C. Psichiatria di Ragusa – Vittoria. Autore di oltre trecento pubblicazioni, ha svolto ricerca presso la Clinica Universitaria dell’Università di Catania, con particolare attenzione all’area clinica, riabilitativa e psicosociale. Negli ultimi anni, il suo interesse si è focalizzato sui temi della didattica medica, con approfondimenti sul rapporto medico-paziente e sulla Medicina Narrativa. Presidente in carica della Società Italiana di Medicina Narrativa, è anche componente del Comitato Esecutivo.

D. Nella sua opinione, in cosa consiste, oggi, la Medicina Narrativa?

A.V. Niente di più difficile che racchiudere in una definizione quella piccola rivoluzione culturale che la Medicina Narrativa rappresenta oggi. Anzi, già “rivoluzione culturale” è una definizione e nemmeno molto lontana dal mio modo di intendere la Medicina Narrativa. La N.B.M. è un atteggiamento culturale che comporta un modo diverso di pensare l’essere medico e dell’intera organizzazione della sanità. È chiaro che questa definizione non può che essere generica e che può anche apparire superficiale. Se si vuole qualcosa di sicuramente più esaustivo rimanderei alla Consensus Conference che si è tenuta, proprio su questo tema, l’anno scorso a Roma a cura dell’Istituto Superiore di Sanità. Non sottovaluterei però la portata di una definizione più semplice perché questa permette una “utilizzazione” della Medicina Narrativa molto più accessibile e anche senza una approfondita preparazione. Faccio notare che queste sono premesse indispensabili per un utilizzo diffuso. Allo stato attuale mi accontenterei anche solo di un’attenzione nuova alle storie delle persone, di una disponibilità all’ascolto. Del resto non dimentichiamo che per secoli l’ascolto del paziente e l’attenzione al racconto della sua malattia, che non era staccato dal racconto della sua vita, sono stati gli strumenti principali del medico, e non mi sembra che la credibilità e l’autorevolezza del medico ne abbia mai sofferto. E non solo, tutta la sanità in generale. Il fulcro è l’attenzione alla storia della persona: questa sarebbe la sintesi, e mi accontenterei anche di questo. Sensibilizzare all’importanza delle storie personali delle persone: è un obiettivo minimo, ma di grandissima portata, perché potrebbe riguardare tutto l’operato medico. C’è anche un discorso, parallelo, di abilità narrativa, di attenzione alla narrazione… In questa direzione ci andiamo specializzando, con un “polo” finale che è quello della psicoterapia. Ossia, è come se andassimo da un polo, rappresentato da un tipo di capacità che dovremmo avere tutti, ad un altro che si situa in ambito psichiatrico – e questa, per me, già non è più Medicina Narrativa.

D. Pensa che sia importante praticare la Medicina Narrativa?

A.V. Se per “praticare” intendiamo una maggiore capacità di ascolto della storia delle persone, se intendiamo l’assunzione di quell’orientamento culturale di cui ho parlato prima, certamente sì. Se la intendiamo come una pratica alternativa, una nuova medicina alternativa fra le altre, quella più alla moda, credo sia estremamente pericoloso con il rischio di creare un nuovo “specialista” che in realtà sarà l’ennesimo medico alla ricerca di un’identità più utile al proprio progetto imprenditoriale che al paziente.

D. Quale scarto epistemologico è necessario compiere per passare dalla Evidence Based Medicine alla Medicina Narrativa?

A.V. Due mondi diversi che devono essere considerati complementari, che devono imparare, entrambi, a convivere, a criticarsi, a conoscere i propri limiti, a definire ambiti di applicazione, a riconoscersi diversi ma con un unico obiettivo: il benessere dell’uomo. È chiaro che la Medicina Narrativa ha le difficoltà maggiori in quanto deve recuperare posizioni perdute, vecchi e nuovi pregiudizi, ma guai se, nel tentativo di un accreditamento scientifico, si cerca di utilizzare gli stessi paradigmi della E.B.M. Sono due situazioni diverse, che per gran parte del loro percorso devono rimanere distinte. Abbiamo bisogno della Evidence Based Medicine, con il suo metodo rigoroso e scientifico, che possa dar valore alle terapie. Ma se applichiamo alla Medicina Narrativa le regole della Evidence Based Medicine, noi la uccidiamo, e la facciamo diventare un’altra cosa. D’altra parte, dare importanza alle singole storie, come se fossero verità scientifiche, è ancora più pericoloso. Come ad esempio nel caso Stamina, ma vale anche per certe terapie antitumorali, per certe “mode”, che si basano esclusivamente sui singoli racconti, è chiaro che non possiamo far diventare verità oggettive le esperienze delle personali.

D. Perché i pazienti dovrebbero condividere la propria illness narrative? Dovremmo sempre considerare le storie riferite come reali? E come dovremmo posizionarci rispetto alle narrazioni dei pazienti?

A.V. La storia del paziente non è mai “reale”: è la storia del paziente, la storia che vive e che ci racconta. Di reale ci può essere giusto il dato anagrafico (a parte palesi casi di malafede). La storia del paziente è sempre soggettiva: va presa per quello che viene raccontata, e per quello che viene interpretata. Quello che conta è il vissuto del paziente, che è molto diverso dal dato obiettivo, ammesso che esista. Bisogna sempre credere che quella sia la realtà che il paziente sta vivendo. è necessario capire come quel tipo di realtà può confrontarsi con quella di altri soggetti. Uno dei meriti principali della Medicina Narrativa è il riconoscimento della necessità di cogliere punti di vista diversi. La stessa storia può essere raccontata in modi diversi: dal paziente, dai famigliari… Non c’è vero o falso, solo punti di vista.

D. Pensa che la Medicina Narrativa possa essere una competenza da imparare già all’università?

A.V. Deve essere insegnata all’Università! Bisogna tuttavia capire come spesso le giuste esigenze si scontrino con tradizioni che molto spesso sono difese di posizioni, di interessi quasi mai legittimi. Quando una competenza diventa una materia di insegnamento rischia uno snaturamento inimmaginabile e questo rischio è ancora più forte nel caso di materie giovani. Siamo capacissimi di programmare anche venti ore per una cardiochirurgia che nessun medico applicherà mai e non ne diamo nemmeno la metà per approfondire competenze più “umanistiche”. Anche in questo caso dovremmo trovare strade nuove per far crescere quella sensibilità alle narrazioni che evitino il pantano della attuale organizzazione didattica delle nostre università.

D. Possiamo pensare di passare dalla Medicina Narrativa verso una più “olistica” forma di comprensione della malattia, degli stati del corpo, della salute, per arrivare a una Salute Narrativa o a una competenza Narrativa?

A.V. Probabilmente non sto rispondendo a questa domanda in maniera diretta, ma approfitto per dire un’ultima cosa che ritengo importante e la domanda mi dà lo spunto per un “esercizio narrativo”. Personalmente mi sono specializzato prima in Psichiatria, poi in Psicologia e infine in Neurologia. Tutto questo forse alla ricerca di riunire quella mente e quel corpo che mi venivano presentati come assolutamente distinti, attraverso l’acquisizione di sempre ulteriori competenze. Per esperienza non credo che questa sia la strada più giusta e quando sento domande come quella che mi ha posto , rivivo tutte le polemiche, gli scontri di anni di “militanza” psichiatrica. Non vorrei che per strade diverse, mi trovi a discutere ancora sulla dicotomia mente-corpo. Quando sento questo tipo di discorsi, ho l’impressione che si percorra una strada già percorsa, anzi continuamente percorsa. Faccio una provocazione: e se invece di sprecare energie a discutere sul rapporto mente-corpo, ci accontentassimo di ascoltare entrambi?

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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