Gentilezza intelligente: intervista a John Ballatt

Ospitiamo un’intervista a John Ballatt, autore assieme a Penelope Camplig del libro “Intelligent Kindness, reforming the culture of Healthcare”.

John ha lavorato per anni in comunità di terapia democratica, prima d’iniziare ad insegnare e a gestire i lavoratori sociali, e quindi lavorare come senior manager nel NHS inglese. E’ stato responsabile nella gestione dei servizi e nel guidare un cambiamento organizzativo strategico. Ora lavora indipendentemente per supportare gli individui, i team e le organizzazioni nella sanità e nel sociale.

Come avete riscoperto il concetto di gentilezza, che ci riporta in qualche modo ad uno “stile antico e dimenticato”?

Ѐ un po’ complicato. Alcuni anni fa vi furono un numero di scandali che hanno mostrato negligenze scioccanti e abusi in un numero di strutture del NHS inglese. Penelope Campling (co-autrice di “Intelligent Kindness: reforming the culture of healthcare”) e io ci siamo preoccupati riguardo le reazioni più che comprensibili. Chiamati a migliorare i sistemi, a richiedere compassione dallo staff, ad assicurare culture di compassione, ci è sembrato di fallire nel pensare a cosa queste culture hanno comportato, a cosa è necessario per sostenere la compassione. In particolare, vi è stato un pericoloso fallimento nel pensare la natura delle relazioni medico-paziente, e ai fattori d’influenza, così come nelle relazioni fra professionisti sanitari, specialmente nei fattori legati alle dinamiche dei gruppi umani.

Abbiamo cercato delle vie per pensare al riguardo. Il concetto di “kinship” ci riporta indietro alle radici evoluzionistiche e sociali dell’appartenenza, della cooperazione, dell’altruismo e della compassione. In questo contesto, “kindness” è un’espressione di appartenenza molto collettiva, un “sentire realizzato” che “il tuo benessere è anche il mio benessere”. Il termine italiano gentilezza è anch’esso lega “kinship” e “kindness”. La gentilezza è stata, ovviamente, denigrata nel corso degli ultimi secoli, relegata ad un dominio privato, sentimentale, leggero – certamente non al dominio professionale. Ma offre una prospettiva cruciale sulla natura di una cultura di cooperazione e di compassione.

“Kinship” è inoltre uno strumento utile nel pensare al perché possa anche volgere su di un versante veramente negativo. Nei gruppi di appartenenza, e tra questo genere di gruppi, può emergere molto repentinamente un conflitto, un rigetto, un abuso o una discriminazione. Considerare le dinamiche dell’appartenenza può aiutarci ad andare oltre una semplice richiesta di compassione o di appartenenza, per comprendere i fattori che la determinano o la indeboliscono. Una gamma di fattori personali, di gruppo e contestuali influenzano la natura delle relazioni fra le persone, con la “famiglia” o arrivando ad includere “gli altri”. Questi fattori possono essere pensati e indirizzati verso la creazione e il sostegno di una cultura organizzativa che consegnerà una cura effettiva e compassionevole.

 

Qual è la principale differenza tra l’approccio della gentilezza intelligente e quello della normale gentilezza?

La gentilezza da sola non basta. Dobbiamo resistere alla tentazione di spostare qualcuno con le ossa rotte in un posto più confortevole. I soldati che hanno liberato i campi dopo l’Olocausto hanno condiviso gentilmente le loro razioni con i prigionieri affamati – la cui abilità di digestione era molto danneggiata e molti ne sono morti. Il concetto di gentilezza intelligente suggerisce che tutta la sanità sia relazionale, ma stressa il bisogno di esercitare sia l’intelligenza “tecnica/professionale” e quella “emotiva/sociale” nella relazione di cura. La gentilezza intelligente coinvolge inoltre una comprensione dei fattori psicologici ed emotivi nell’individuo, nel gruppo e nel sistema più vasto che richiede attenzione per assicurare una cura effettiva, compassionevole.

Il paziente e il team medico devono gestire l’ansia, il dolore, il disgusto che sono spesso parte dell’esperienza e del trattamento della malattia e del malessere. Devono essere in grado di fare ciò sia come individui che come team che come gruppi. Crediamo che aspettarsi che l’individuo gestisca sé stesso al fine d’essere efficiente e compassionevole non sia abbastanza. Anche se praticare la mindfulness o meditare può aiutare l’individuo, è indirizzando le condizioni e le dinamiche di un sistema più ampio che una cultura di gentilezza intelligente può crescere. Una cultura simile sostiene i suoi membri nel lavorare assieme con compassione, efficienza ed efficacia. Abbiamo apprezzato la vostra idea di sanità ecologica. Penso che tutti riconosciamo il fatto che è in un sistema, in una cultura, che emerge la buona pratica, nutrita dalla giusta consapevolezza, dai giusti valori, comportamenti e condizioni. Questo è vero tanto per un’orchestra o per una squadra di calcio che per un team medico. Sono tutti sistemi relazionali, che possono essere aiutati per rafforzare l’attenzione reciproca, l’armonizzazione, la fiducia e l’effettiva collaborazione. La gentilezza intelligente non è un oggetto o uno strumento. Si tratta di un modo di pensare, sviluppare e partecipare effettivamente in una cultura che abbia le radici nella nostra storia evolutiva di collaborazione e solidarietà – la nostra appartenenza positiva.

 

Perché la gentilezza è così difficile da realizzare nell’ambiente della cura, paradossalmente, dato che i pazienti fragili sono quelli che più necessitano di gentilezza?

Per quanto siano abili e professionali i clinici, loro così come I loro pazienti devono gestire l’ansia profonda legata nell’incontro con la malattia e il malessere. Devono resistere alla tentazione di voltarsi dall’altra parte, di rimuovere, di cadere nel panico. Questo è ugualmente, se non più, inconscio che conscio, nei pazienti così come nei clinici. Ignorare, o gestire quest’ansia in maniera negativa, può renderci ciechi, distorcere e tagliare le connessioni umane tra clinici – tra loro e con i pazienti. L’ansia può generare competizione, ostilità ed esclusione. Può annebbiare lo spazio mentale necessario all’attenzione, ad essere scossi, a gestire le emozioni, le relazioni e le abilità cliniche in modo adeguato. L’ansia è un dato di fatto per gli individui, per i team e per i sistemi più ampi.

Uno degli effetti dell’ansia pervasiva è che le organizzazioni possano divenire perverse, come ha notato Susan Long nel suo lavoro. In organizzazioni del genere le persone, specialmente i leader, usano gli altri come mezzi per un fine, come strumenti per soddisfare i propri bisogni personali, o ridurre la loro ansia. Come nella perversione individuale, in culture tanto manipolatrici ed esigenti, vi è un diventare ciechi, un rifiuto sia ostinato che inconscio del costo per gli altri, dei problemi che incontrano nel ricevere le richieste, di cosa è coinvolto nel fare il loro lavoro al meglio. Inevitabilmente, la cura soffre nelle organizzazioni sanitarie per comportamenti del genere.

 

Ma quali le cause di questa ansia così pervasiva nelle organizzazioni di cura?

Bene, ho fatto un accenno alla natura della malattia e del malessere. Ma c’è una gamma di altri fattori. Molti di questi sono per certi versi inevitabili nelle moderne organizzazioni sanitarie, ma tutti, se non gestiti con intelligenza, possano avere pericolosi effetti secondari che minano la cura effettiva, compassionevole.

La completa scala di bisogni e la complessa gamma di abilità e risorse nella sanità significano che qualche grado d’industrializzazione, di sistematizzazione, è inevitabile. Lavorare per raggiungere risultati o obiettivi di performance, per essere efficienti, è inoltre inevitabile per alcune entità. Può inoltre esserci competizione fra diverse organizzazioni. Nella peggiore delle ipotesi, il modo in cui questi fattori sono gestiti può provocare un’enorme ansia e distorcere il sistema umano di cura. I leader possono essere ansiosi che i loro servizi incontrino obiettivi difficili, che debbano gestire risorse limitate, consegnare rendimenti, sondaggi. Lo staff può essere trascinato dentro quest’ansia, distratto dal paziente e dagli altri, guardando oltre le proprie spalle per fornire dati, numeri, risultati misurabili, per cercare di gestire l’ansia dei propri capi, per consegnare per loro, per andare incontro ai loro bisogni.

Vi è sempre il pericolo che lo staff diventi una delle parti della macchina, consegnando procedure frammentate a ripetizione, divenendo prevenuto nel pensare e nell’usare la propria immaginazione, perdendo la complessità del paziente. Non c’è dubbio, ad esempio, che le check-list possano essere veramente utili nell’assicurare che importanti basi vengano portate a termine, ma il loro reale valore è di fornire spazio per l’attenzione, il pensiero creativo, il sentire e la collaborazione del team clinico. Spesso le procedure o le check-list sono usate al posto di questa pratica intelligente.

Gli stessi pazienti possono diventare prodotti di processi della linea di produzione, sperimentando un viaggio frammentato e impersonale, misurati in numeri e come recipienti di merci varie. Quando i loro bisogni incontrano obiettivi difficili possono addirittura divenire degli inconvenienti! Presi fra management e pazienti, i professionisti sanitari possono divenire ansiosi, infuriati o tristemente disperati – o tutte queste cose.

La gentilezza intelligente ci richiedere di minimizzare tutti questi fattori, e, dove siano ancora necessari, gestirli con sensibilità rispetto il loro potenziale danno al pensare, sentire e relazionarsi coinvolto nella sanità. I leader specialmente, ma tutto lo staff, necessitano di un aiuto per riconoscere e gestire l’ansia e pensare se è contenuta in maniera sana e di come influenza la cultura e la pratica per l’organizzazione e i suoi membri.

 

Credi che la gentilezza intelligente sia una pratica che possa essere appresa? Come può riformare il sistema sanitario?

Così come la nostra esperienza delle relazioni precedenti può nutrire o danneggiare la nostra abilità di sviluppo, di relazionarci con gli altri, di concentrarci, di pensare, così la gentilezza di cui abbiamo parlato può essere nutrita e può emergere dalla qualità della nostra esperienza delle persone e dalla cultura nella quale lavoriamo. Se questo ecosistema è gestito propriamente, con la giusta comprensione di cosa sia il compito collaborativo, allora questo può promuovere la gentilezza intelligente. Può essere davvero semplice. Se lavori con altri che possono sopportare mentalmente il dolore della malattia e della morte, che possono discutere e reagire alle loro vulnerabilità allo stress, alla stanchezza, e all’ansia, allora tu svilupperai facilmente una pratica basata sulla gentilezza intelligente.

Ma, in un’epoca di conoscenze e abilità tecniche, è vitale che noi riconosciamo e insegniamo che la loro reale efficienza dipende da queste abilità indirizzate assieme ad una relazione lavorativa salutare e creativa – con colleghi e pazienti. Un’attenzione guidata dalla gentilezza che può emergere da un senso di appartenenza (dell’essere “di un genere” e “coinvolti assieme”) promuove l’armonia, la fiducia, l’alleanza terapeutica e risultati clinici migliori. Abbiamo bisogno di unire il tecnico e il relazionale nel nostro insegnamento, nel nostro addestramento e linguaggio di professionisti sanitari.

 

Una continua educazione e riflessione professionale è vitale. Esporre i clinici (e manager) ad autentiche narrazioni, – riguardanti pazienti e esperienze dello staff – può promuovere la gentilezza, l’empatia e le abilità relazionali. Ѐ ancora più potente quando queste storie sono consegnate faccia a faccia, ma anche le storie scritte possono aiutare.

Una gamma di approcci alla pratica riflessiva, per individui, team e organizzazioni, può aiutare. Preoccupa molto che questa pratica oggi sia stata fatta fuori, quasi come un lusso. Dobbiamo inoltre riconoscere che i supervisori e i mentori dello staff clinico necessitano, loro stessi, di supporto per comprendere e valutare gli aspetti psicologici, emotivi e relazionali del lavoro professionale.

 

Come vi comportate quando dovete insegnare a Medici basati sulle evidenze? Quando l’atteggiamento dell’Evidence Based Medicine è più un’ideologia che una scienza?

Siamo ai limiti della sindrome di Asperger, per definire questa carenza di empatia. Prima di tutto bisognerebbe analizzare tutte le aree che confutano questa concezione, in modo tale da mostrare loro i dati che dimostrano che attraverso un’altra via si stanno producendo evidenze positive in merito ad esiti di salute. Secondariamente è anche interrogarsi su cosa significa scienza: la medicina basata sulle evidenze cambia di continuo nel tempo, ed è un movimento dinamico. Certe cure che si davano trent’anni fa oggi non si danno più, perché nuove evidenze hanno superato quelle obsolete. E quindi un vero scienziato sa che è corretto mettere in dubbio le evidenze prodotte.

Infine, un valido professionista ha il compito di mettere assieme la dimensione relazionale- umana, con quella tecnica: sennò non si può parlare di un bravo curante ma di un meccanico.

In sintesi, al di là dei corsi di comunicazione tra professionista sanitario e paziente, è necessario prima “prendersi cura dei curanti”, perché il resto viene da solo, poi spontaneamente, come in un ecosistema.

 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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