Domare l’ortodossia della Evidence-Based Medicine


Bisbetica4-Ciphers-and-constellations-in-love-with-a-womanSu, su, vermi testardi e incapaci!

Il mio animo è stato altero come il vostro,

così il mio cuore e forse più la mia ragione,

tanto da ribattere parola per parola e cipiglio a cipiglio.

Ma ora vedo che le nostre lance non sono che pagliuzze,

debole la nostra forza, senza confronto le nostre debolezze ,

tanto più deboli là dove vogliono apparire più forti.

La bisbetica domata, W. Shakespeare

 

Negli ultimi versi de La bisbetica domata, Shakespeare fa uscire dalle labbra di Caterina parole di una infinita dolcezza, quella dolcezza che sarà la chiave del suo matrimonio con Petruccio. Nel corso dell’intera commedia, Caterina è magistrale nell’utilizzo di qualità dialettiche, vincendo sempre tutti i suoi possibili avversari grazie alla sua mente acuta. Per conquistare il suo amore, “l’innamorato” Petruccio si comporta come un folle, al di là di ogni regola, fuori dagli schemi, ma mai usando la forza bruta nei suoi confronti. L’opera di Shakespeare suggerisce che gli uomini e le donne di successo lavorano in tandem, non in maniera gerarchica, e così facendo, inoltre, eleva non solo il marito e la moglie, ma – per estensione – tutti e tutto ciò con cui questi entrano in contatto.

Guardando agli ultimi vent’anni, la Evidence Based Medicine (EBM) è diventata il matrimonio d’oro per la scienza e la cura; nessuna cura di cui non si sia provata l’efficacia, comparativamente con un certo golden standard, dovrebbe essere considerata valida per un’analisi medica. La definizione di EBM data da David Sackett nel 1996 è “the conscientious, explicit, and judicious use of current best evidence in making decisions about the care of individual patients”. Sono passati quasi vent’anni, e l’EBM ha colonizzato il Nord America, i paesi Europei, muovendosi con un approccio globale, tanto da essere riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come il primus movens dell’evoluzione della scienza clinica. Era ed è stata, sicuramente, uno strumento per tirare fuori la scienza medica dall’approccio paternalistico e “sovrumano” esibito dai medici: è successo nel momento in cui, storicamente, era emerso un valore molto importante per controbilanciare il potere dei medici sui pazienti, il dilemma – davvero impossibile da risolvere – dell’asimmetria nella relazione pazienti-medici. Leggendo la definizione di Sackett ci troviamo di fronte a un problema enorme: i singoli pazienti. L’individuo è una singolarità, i pazienti sono una collettività.

Questa sfumatura della definizione è stata del tutto trascurata da chi fa i trial clinici, per cui sono importanti solo popolazioni e sottogruppi di pazienti: l’individualità non conta. Con le sue parole, Sackett stava già anticipando un paradosso filosofico: come la soluzione individuale potrebbe essere adeguata alle popolazioni? Stava introducendo un avvertimento nella sua stessa disciplina – e nella sua stessa scuola. Nonostante questa attenta formulazione, l’EBM si sviluppò senza controllo, e divenne un gigante nelle comunità scientifiche, nei congressi medici e nella gestione degli ospedali: solo le soluzioni terapeutiche basate sull’evidenza sono rimborsate, specialmente in questi anni di calo delle risorse.

“It is time to stop overloading doctors with evidence and deploying fast-talking industry salespeople to manipulate them with clever marketing pitches. […] Research-derived facts about the average patient must not outweigh individual patients’ observations of their own bodies and illnesses. New processes for capturing and accommodating patients personal experiences – which are typically idiosyncratic, subjective, and impossible to standardize – would go a long way toward ensuring that each patient receives the right treatment. The medical community must develop the science of shared decision-making, in which epidemiological evidence informs conversations about what matters to the patient and how best to achieve those goals. In doing so, we can take Evidence-Based Medicine beyond its current limits and develop a holistic approach that accounts for patients’ experience of illness and promotes good clinical practice”.

Is Evidence Based Medicine broken è il titolo di questo articolo, pubblicato nell’ottobre del 2014, dell’epidemiologa e narratologist Trisha Greenhalgh; le sue considerazioni muovono da una ricerca condotta, nel 2014, con medici britannici tramite il British Medical Journal, chiedendo ai suoi lettori se la EBM stesse funzionando male. Le risposte davano una spaccatura netta: il 51% rispose positivamente, e il 49% negativamente. È impossibile trovare un consenso confrontando questi dati; una scarsa democrazia in favore della EBM può essere sensata, ma a parte questa sensazione, viene seriamente messa in pericolo la logica della metodologia scientifica. Le cause principali, riportate in questo articolo, sono la scelta di un golden standard nei trial che esclude altre alternative non riconosciute valide dalla comunità scientifica ma, al contrario, credute utili nella prassi medica, ad esempio lo yoga, l’invenzione delle malattie fantasma, da differenti portatori di interessi – università e aziende private hanno sviluppato il female sexual arousal disorder, o, nell’implementazione dell’EBM, gli strumenti di supporto decisionale incapaci di gestire il disordinato, imprevedibile, mondo reale della pratica clinica.

A queste considerazioni, potremmo aggiungere altri errori e scarsi esiti della EBM: l’esclusione dei pazienti con comorbidità, molto spesso pazienti anziani, era un errore già rilevato all’alba dell’EBM nel 1995, con la pubblicazione di un articolo provocatorio che già si chiedeva se il totem scientifico del nuovo millennio avrebbe potuto essere la Evidence Based o la Evidence Biased Medicine. Un altro errore è dovuto all’enorme campione statistico che solo dei risultati statisticamente significativi sono in grado di dimostrare, e che – da un punto di vista clinico – contano meno che la punta di uno spillo: “The larger the effect of a specific treatment, the smaller the required trial”.

L’errore di pubblicazione è un’altra trappola rilevante per l’EBM; per esempio, per una terapia con antidepressivi la FDA ritenne positivi 38 dei 74 studi presentati (51%), e – di questi 38 – tutti tranne uno furono pubblicati su riviste scientifiche. Gli altri 36 studi (49%) furono ritenuti, dall’FDA, o negativi (24 studi) o discutibili (12). Di questi 36, tre studi furono pubblicati come non positivi, mentre i rimanenti 33 o non furono pubblicati (22 studi) o furono pubblicati, come illustra Turner, positivi (11), in contrasto – di conseguenza – con le conclusioni dell’FDA. Complessivamente, gli studi che l’FDA aveva giudicato come positivi avevano una probabilità di essere pubblicati dodici volte superiore, in un modo che concordasse con le analisi dell’FDA, rispetto a studi con risultati non positivi secondo l’FDA (risk ratio, 11.7; 95% intervallo di confidenza [CI], 6.2 fino a 22.0; P<0.001). Qui la statistica è importante, e mostra in modo molto plausibile che l’errore di pubblicazione esiste, nonostante ci sia un regolamento scientifico che chiede di pubblicare tutti i risultati, quelli positivi e quelli scarsi.

Anche l’Economist inizia a interessarsi alla scienza, principalmente per l’affidabilità dei portfolio dei farmaci e delle tecniche delle scienze naturali e farmaceutiche, e delle relative disposizioni accademiche, e nell’ottobre del 2013 dichiara: “The obligation to publish or perish has come to rule over academic life. Competition for jobs is cut-throat […]. Careerism also encourages exaggeration and the cherry-picking of results. In order to safeguard their exclusivity, the leading journals impose high rejection rates: in excess of 90% of submitted manuscripts. The most striking findings have the greatest chance of making it onto the page. Little wonder that one in three researchers knows of a colleague who has pepped up a paper by, say, excluding inconvenient data from results based on a gut feeling”. Il rumore statistico viene anche qui a coprire la genuina scoperta, che non può permettersi che siano testati grandi trial, o è così innovativa che è trascurata dalla casta dell’accademia scientifica. I numeri parlano da soli. “A rule of thumb among biotechnology venture-capitalists is that half of published research cannot be replicated. Even that may be optimistic. Last year researchers at one biotech firm, Amgen, found they could reproduce just six of 53 landmark studies in cancer research. Earlier, a group at Bayer, a drug company, managed to repeat just a quarter of 67 similarly important papers. A leading computers scientist frets that three-quarters of papers in his subfield are bunk. In 2000-10 roughly 80.000 patients took part in clinical trials based on research that was later retracted because of mistakes or improprieties”. L’Economist è molto duro, critica e parla di carierismo e possibile frode: però, mettendo insieme la complessità umana dei pazienti, come già descritta da Greenhalgh, e queste informazioni, potremmo arrivare all’idea che c’è qualcosa dietro al numero delle pubblicazioni, la faziosità dell’EBM, l’arrivismo, gli introiti del Sistema Sanitario e di Cura e le scienze naturali: è impossibile, o molto difficile, trasferire una scienza davvero genuina da centro a centro, da paper a paper, per alcune ipotetiche ragioni che vorrei elencare: innanzitutto, ogni testo si situa in un contesto unico, e così solo – forse – in un sistema fisico chiuso l’esperimento può essere riprodotto. In secondo luogo, il modo in cui le pubblicazioni scientifiche sono articolate è così strutturato che ostruisce la possibilità di trasferire il sapere intangibile, le sfumature secondo cui uno specifico testo scientifico può essere ripetuto. Non sarà mai lo stesso. Nulla può accadere due volte, come scrive Wislawa Szymborska, premio Nobel per la Letteratura 1996:

Nothing twice.

Nothing can ever happen twice.

In consequences, the sorry fact is

That we arrive here improvised

And leave without the chance to practice.

Even if there is no one dumber,

If you’re the planet’s biggest dunce,

You can’t repeat the class in summer:

This course in only offered once…

E forse niente succede esattamente nello stesso modo anche nel mondo della scienza: e questo è perché è così difficile ripetere nello stesso modo l’esperimento scientifico che fu eseguito prima al Karolinska Institute e poi in un centro di ricerca meno noto: le riviste scientifiche e il congresso scientifico come sono oggi, le pubblicazioni sono così rigide, così rigorose, così corazzate che negli ultimi anni sembrava un veicolo fragile per trasferire sapere, quel sapere che è fresco, non protetto da interessi economici consolidati, ancora fragile, e non così facilmente classificabile con una risposta “sì” o “no”.

Ci siamo scontrati – e ancora ci scontriamo – con l’ortodossia dei critici delle riviste afferenti all’Evidence Based Medicine: dopo aver sottoposto Narrative Medicine to highlight values of Italian pain therapists in a changing healthcare system, un paper narrativo, a quella che è la rivista europea di riferimento per il trattamento del dolore, inizialmente ricevetti questa risposta molto secca da parte dell’editor in chief: “We will not forward your article to any referees, because we publish only quantitative results”. Qui, i totem sono numeri, cifre, probabilità: nessun testo, nessun contesto è concesso. La buona notizia è che siamo stati in grado di pubblicare il nostro lavoro con un altro editore. Quello che mi ha colpita – anche se devo ammettere che ero parecchio arrabbiata per la risposta – è stata la superficialità con cui il nostro paper era stato preso in considerazione. L’EBM tiene le chiavi del paradiso scientifico contemporaneo, nei comportamenti della maggior parte dei critici dei paper che sono frutto della ricerca scientifica. E questa è un’ortodossia – la potremmo definire anche un abuso di potere – che deve essere domata: non solo numeri ricavati dai trial, ma anche numeri dal mondo della vita reale. E dietro questi, non solo cifre, ma anche narrative in grado di mostrare la complessità e la soggettività del mondo dei curanti, dei pazienti e di chi li assiste.

Greenhalgh scrive: “Indeed only Aunt Nora can tell you how her celiac disease behaves. She also happens to be opposed to taking blue-colored pills. And she insists that, years ago, when she took drug X, it made her feel like a new woman – despite the fact that, in 1.000 patients, drug X has demonstrated, on average, no effect. The computer model’s treatment recommendations would probably not work for Aunt Nora”.

L’EBM potrebbe essere diventata la superba Caterina de La bisbetica domata, intenerita dalle maniere narrative, bizzarre ed eccentriche di Petruccio, l’antilogico personaggio che si innamora di lei: “But now I see our lances are but straws”. La bisbetica EBM dovrebbe vedere che le lance sono solo paglia, e unicamente perdendo la sua arroganza, e includendo la poesia della humanitas della cura, potrebbe trasformarsi in una bella donna innamorata per la prima volta, e vincere un lieto fine. Senza alcuna gerarchia, solo la situazione – vantaggiosa per tutti – di logica, intuizione ed emozioni.

 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

Questo articolo ha un commento

  1. canova

    Sono perfettamente d’accordo con l’autrice dell’intervista

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