Curare il linguaggio della cura

Paul Bond - The mooring
Paul Bond – The mooring

Il peso del comando

Segua la mia prescrizione; Prenda le medicine; Lei non deve andare in bici per un viaggio lungo; Faccia queste indagini; Si tolga dalla testa di avere dei figli, dato che ha un tumore

Queste sono solo alcune espressioni del frasario dei curanti trascritte dai pazienti. Alcune citazioni sono più ovvie e risapute, Deve assumere le medicine, altre molto più invasive, in cui il medico o il curante non solo “ordina”, ma addirittura si insinua pesantemente nelle “vite degli altri” – al punto di raccomandare di non mettere al mondo dei figli.

Analizziamo il linguaggio: il tempo utilizzato è il presente, che significa che stiamo operando nel qui e ora, ma il modo per chiedere è quasi sempre il congiuntivo esortativo, che nasconde il modo imperativo. Esprimersi con l’imperativo appartiene alla cultura del potere, della gerarchia e della sudditanza.

Secondo l’analisi transazionale [1], questo linguaggio prevede due principali Stati dell’Io: quello del curante, che si esprime abitualmente nello stato del Genitore Normativo, ossia in una posizione superiore e di comando; e quella del paziente che, per rispondere in modo coerente all’ordine, si colloca forzatamente nel ruolo dello stato del Bambino Adattato (quando è convinto della bontà delle esortazioni), del Bambino Sottomesso (quando si sottopone a qualsiasi cosa, anche ritenuta ingiusta, che gli intima il curante) o del Bambino Ribelle (quando uscendo dallo studio del curante dirà a sé stesso Questo medico non mi rivedrà più).

La durezza del linguaggio di alcuni operatori sanitari – e in generale delle persone che sono in una posizione di potere – può avere senso se usata cum grano salis, ossia quando è veramente necessaria. Se è vero che con alcuni pazienti funziona il comando Smetta di fumare e basta, con altri non è così. Il modo imperativo difficilmente entra nella voluntas del paziente, nella scelta matura e volontaria consapevole: rappresenta un peso soverchiante difficile da portare sulle spalle.

Le posso dire che il fumo fa male. Se lei continua a fumare, i suoi polmoni si riempiranno di sostanze che distruggeranno la loro elasticità, e lei farà sempre più fatica respirare, fino al rischio di soffocare… Mi capisce? Però se sceglie di smettere di fumare – immagino la sua fatica, ma io le sarò accanto – potrà ancora fare tanto per recuperare il suo corpo e il suo benessere. Questo potrebbe essere un modo leggero e efficace per informare il paziente sui danni del fumo, e attivare lo Stato dell’Io Adulto, in modo che sia il paziente a capire i benefici della cessazione di questa dipendenza. Il medico riveste il ruolo dello Stato dell’Io del Genitore Affettivo che rassicura il Bambino Naturale impaurito, e dell’Adulto che spiega le conseguenze del fumo.

Quando ci troviamo in sala d’attesa dal medico, così come quando vediamo passare un infermiere in corsia che ci ordina di stendere il braccio per un prelievo, è difficile rimanere sereni e tranquilli: abbiamo paura delle parole che ascolteremo, del modo in cui verranno dette, e del dolore che potremo provare per certe indagini che ricordano le esposizioni a strumenti di tortura. Non esagero: lacci, aghi, divaricatori, pinze, sono, sebbene in forma piccola e ridotta, presenti anche nell’armamentario dei musei della tortura.

Alla “tortura” del corpo si sommano gli esami – dolorosi, ma talvolta necessari; e a questi si sommano anche le parole intimidatorie e richiedenti dei curanti. Usate nel modo imperativo, queste vanno a ferire l’autostima della persona, e la pongono “non alla pari”, non solo fisicamente, in quanto c’è già una situazione di gerarchia tra persone sane e persone “ammalate” (ammalato, dal latino male aptus, incapace, inadatto), ma anche verbalmente, con i comandi Si spogli, Si rivesta. Sono piccole violazioni all’identità della persona, che si ritrova sola, defraudata in ospedale dei vestiti, messa a nudo talvolta in modo impietoso.

I pazienti, spesso in sudditanza passiva, in una fase di restitution [2], regrediscono a situazioni infantili e si sentono piccoli, come quando Alice sbaglia la dose della medicina e arriva fin quasi a scomparire nella tana del Bian Coniglio.

La situazione logistica delle cliniche, il gergo dei curanti, la batteria dei test sono un insieme di fattori che mette a dura prova la persona malata, già fragile e vulnerabile. È una condizione che pesa come il piombo.

La leggerezza del sorriso

Si può uscire da questa situazione? Su alcuni aspetti non si possono fare sconti: per prendere una vena ci vuole un ago, la diagnosi di un tumore non può essere modificata, il catetere per urinare quando necessario va messo…

Eppure si potrebbe fare molto con poco. Partiamo dal pigiama o dalla camicia da notte: perché non possono essere personalizzati, belli e colorati, e ampi al punto da permettere di recuperare senza problemi le vene per il prelievo, di toccare il corpo con leggerezza, senza vergognarsi di essere marchiati da una divisa spersonalizzante come quella del “bambino con il pigiama a righe”?

Poi viene il linguaggio: nelle professioni di aiuto si cerca la pietra angolare su cui costruire il rapporto fatto di gesti, suoni e parole, e la si chiama empatia.

Parola spesso abusata, insegnata attraverso il facile slogan come “essere nei panni di un altro”: una definizione utopica, impossibile. La persona sana non sarà, né vorrà, né potrà essere, nei panni di un malato. Allora cosa fare? Detronizziamo questa visione evangelica dell’empatia. Andiamo invece a cercare con curiosità – come ci insegna Atul Gawande [3] nel suo libro Con cura – chi è la persona con cui stiamo interagendo, con la capacità d’ascolto e di osservazione più ampia possibile affinché questa persona possa essere compresa, accolta, guidata nel senso più affettuoso a ritrovare sé stessa con un nuovo modo di vivere la malattia. L’uso smodato dell’imperativo potrebbe lasciare il posto all’“ottativo”, che è il mondo del desiderio, delle potenzialità e delle opzioni. I greci antichi avevano il modo ottativo indipendente, al pari dell’imperativo; noi italiani non gli abbiamo più dato la dignità di un modo verbale, ma lo esprimiamo attraverso il concetto di volere, desiderare, potere, optare, scegliere. E poi c’è il tempo indicativo futuro, quello che può aprire alla speranza e all’ottimismo. Prima di intimare al paziente, Lei deve o Non deve, potrebbe essere opportuno capire chi abbiamo davanti, quali sono i suoi valori, il suo credo, le sue paure, le sue resistenze, i suoi amori, le sue passioni. I curanti sono lì per curare, per rafforzare l’identità del paziente, per stargli accanto durante le prove più difficili, in cui già il paziente vive il suo senso di colpa perché non si sente più fisicamente utile, ma uno scarto, una possibile fonte di sofferenza per chi gli vuole bene.

E allora lavoriamo con le parole in modo scientifico. Cerchiamo di alzare nei pazienti la produzione di endorfine, i “dolci narcotici” che sintetizziamo all’interno del nostro corpo e ci danno benessere. Il sorriso, la risata aumenta la sintesi di endorfine [4]: ma solo nel 15% dei casi questo aumento è conseguente a battute e barzellette. Nel restante 85% il fattore scatenante è la qualità della relazione, il senso del legame che permette il sorriso, il riso, e non la risata a comando come nelle sit com in cui si ride e si applaude per dovere.

La relazione che produce il sorriso contempla non sono solo due stati dell’io come Due Adulti – quello del curante e quello del curato allo stesso livello – ma anche i loro due Bambini Naturali, che giocano, ad esempio, con la ricetta, Se lei segue la mia ricetta, io mi farò dare da lei la sua ricetta per… Ciascuno di noi ha una ricetta segreta che dà piacere: una ricetta per arrampicarsi in montagna, per cucinare la caponata di melanzane, per leggere una buona storia.

I riconoscimenti positivi producono sorrisi, e dunque endorfine: La trovo bene, Come sta bene vestita di azzurro, Come sono simpatici i suoi nipoti. Oppure semplice riconoscimento nel prendere sul serio – ma in modo non troppo plumbeo – l’altro su cosa pensa di politica, o di come vanno le cose nel mondo… O di quali posti ha visitato o vorrebbe visitare. Fino al poter chiedere Cosa avrebbe voglia di fare oggi?: magari il desiderio è irrealizzabile, ma il fatto di averlo espresso al proprio curante permette una maggiore intimità di legame.

Queste sono solo proposte per sviluppare in modo autentico quell’empatia percorribile che crea un legame, e che permette la produzione di endorfine, non solo nel paziente ma anche nel curante, perché si sentirà più a suo agio e meno irrigidito dal ruolo, in una professione molto faticosa e colma di responsabilità. Negli anni Ottanta, in alcuni ospedali esisteva – che fine ha fatto? C’è ancora? – la stanza della risata: un luogo dove i pazienti potevano rilassarsi, giocare, parlarsi, parlare con i propri curanti. Un momento necessario di Carnevale, prima di tornare a sottostare agli ordini della medicina. Ora ci sono le corsie piene di Patch Adams nelle pediatrie, ma per i grandi, per gli anziani si trascura la parte della leggerezza, e si pensa troppo spesso che il senso del dovere farà loro affrontare con il giusto spirito di sacrificio la malattia, e tutto il kit di esami e prescrizioni.

Assieme alla parola, viene la musica: a ciascuno la sua musica, che produce endorfine [5], perché l’orecchio si è abituato a amare di più certi pezzi e a rifiutarne altri. Nelle sale d’attesa e durante il ricovero c’è tempo per ascoltare la propria musica da endorfinomani, che è addirittura in grado di innalzare la soglia del dolore fisico. E quindi la musica stessa come farmaco, come diceva Oliver Sacks: spesso la musica, il suono, è la medicina più potente, perché poggia su un linguaggio archetipico che viene prima dello sviluppo della parola, e quindi entra dentro l’essenza della persona [6]. Ed è anche il tono del linguaggio un fattore che può produrre endorfine, che se dolce e accarezzevole può smorzare la durezza delle parole, accompagnando la componente verbale al regno del paraverbale, il mondo della voce.

Un’altra scoperta straordinaria rispetto alle endorfine e al linguaggio [7]: il linguaggio ha cura di sé stesso per permettere la propria evoluzione. Un gruppo di ricercatori spagnoli e tedeschi ha scoperto che apprendere una nuova lingua o inventare nuove parole produce endorfine. Questo forse, sia per facilitare l’apprendimento da bambini, sia per far sì che il linguaggio continui ad evolversi all’infinito. Siamo noi che lo costruiamo e abbiamo tante possibilità per inventare giochi nuovi e uscire dal ritrito verbo dovere, che attiva un regressivo senso di colpa e di inadeguatezza, per spostarci verso altri lidi e orizzonti di Poesia. Il verbo dovere non è presente nei numeri primi semantici, o degli atomi di significato che compongono il metalinguaggio semantico naturale, quella lingua universale parlata dal mondo intero [8]. Esistono invece i verbi pensare, volere, sentire, ascoltare, vedere, fare. E quindi la parola dovere è conseguente a una costruzione sociale e non al linguaggio naturale.

Chiudo tornando alla Poesia e al Sorriso, con Italo Calvino e le sue sei Lezioni americane: le sei qualità da portare nel nuovo millennio, la leggerezza, la rapidità, la esattezza, la visibilità la moltitudine e la coerenza [9]. Di questi valori mi piace la leggerezza, quella leggerezza pensosa che può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Ecco perché le battute scontate e l’ironia cinica funzionano a malapena: sono frivolezze di piombo. Calvino scrive Nei momenti in cui il regno dell’uomo mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovremmo volare come Perseo. L’eroe che non si fa trasformare in pietra da Medusa, ma vedendola solo di riflesso e con distacco la vince, e con i sandali alati, a Lui donati da Hermes, il Dio del Linguaggio, è capace di volare leggero sopra l’orrore delle vicende umane.

[1] Eric Berne, What do you sy after you say hallo?, New York Time book, 1972

[2] Arthur Frank, The wounded story teller,  The University of Chicago Press Book, 1995

[3] Atul Gawande, Con Cura,  Einaudi 2008

[4] Allan Pease, Barbara Pease, The definitive book of body language, 2016

[5] Dunbar RI, Kaskatis K, MacDonald I, Barra V. Performance of music elevates pain threshold and positive affect: implications for the evolutionary function of music. Evol Psychol. 2012 Oct 22;10(4):688-702.

[6] David Hendy,  Noise, 2013, Companion to BBC Radio Series, Wellcome Edition

[7] Pablo Ripolles et al. The Role of Reward in Word Learning and Its Implications for Language Acquisition. Current Biology Journal, 2014.

[8] Wierzbicka, Anna.. Understanding Cultures Through Their Key Words. Oxford: Oxford University Press, 1997

[9] Italo Calvino, Le lezioni Americane, Garzanti, 1988

 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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